Giamaica e poi New York, dal 1976 al 1991. Breve storia di sette omicidi di Marlon James (Frassinelli, pp. 688, euro 24,50, traduzione di Paola D’Accardi) è un’immersione nel lato oscuro degli anni Settanta, con fatti e scelte che si riverberano sui decenni successivi.
La notte del 3 dicembre 1976 un gruppo di gangster locali assalì la villa di Bob Marley e cercò di uccidere il cantante e le altre persone presenti, senza riuscirci. Se questo è il punto di partenza, l’intreccio è un tour de force virtuosistico e appassionante. James rinuncia al narratore onniscente che dipana i fatti in ordine e affida lo sviluppo del racconto a una serie di monologhi alternati.
Prendono così la parola, volta a volta, come in una jam session, delinquenti, politici, un giornalista americano, killer e agenti segreti della Cia, una ragazza giamaicana che ha avuto un breve incontro con il Cantante – in tutto il libro Marley è sempre chiamato così ed è l’unico a non parlare mai, nemmeno quando entra in scena – e altri ancora.
La tecnica modernista del flusso di coscienza è portata a estremi di grande raffinatezza, ma non crea confusione nel lettore: superato l’impatto e lo sconcerto iniziali, bisogna farsi conquistare da questo fluire di parole, da queste frasi cesellate e modulate su ogni figura – un plauso alla traduttrice, capace di domare questa materia così multiforme, in cui lo slang s’alterna al forbito e al delirante, dando a ogni personaggio tono, voce e caratterizzazione anche in italiano.
Man Booker Prize 2015, Breve storia di sette omicidi è un romanzo destinato a restare.

