La Suburra, ai tempi dell’antica Rona, era il quartiere malfamato. Sub Urbem, sotto l’Urbe, il sottosuolo della Città Eterna. Oggi Roma è Suburra.
Un inferno metropolitano dove si aggirano dannati di varia levatura. L’onorevole di centro-destra (ex MSI o forse peggio) Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino), cui piacciono orge e droga, amico e succube di un altro reduce degli anni Settanta, il terrorista nero ora capobanda mafioso Samurai (Claudio Amendola).
Malgradi ha come pusher di droga e donne Sabrina (Giulia Elettra Gorietti), amica di Sebastiano (Elio Germano), pr e organizzatore di festini Cafonal, per dirla con Dagospia.
Quando una notte Sabrina si trova a dover gestire una situazione d’emergenza chiama Spadino (Giacomo Ferrara), fratello del boss zingaro Manfredi Anacleti (Adamo Dionisi), il quale ricatta Sebastiano per via dei debiti del padre.
A completare il quadro dei 6 gradi di separazione, Numero 8 (Alessandro Borghi), figlio del capobanda di Ostia e compagno di Viola (Greta Scarano), come pure colui che con un omicidio scatena la faida tra i suoi e gli Anacleti.
Ma il Samurai, che usa Malgradi come pedina in Parlamento, ha bisogno che Ostia sia tranquilla, in vista di una mega speculazione edilizia – finanziata dalla mafia e da oscuri ambienti del Vaticano – che la trasformerà in una specie di Las Vegas.
Da diversi anni i produttori italiani, Cattleya in testa, cercano a riesumare il glorioso “cinema di genere” di quasi mezzo secolo fa.
In questo caso l’operazione è ancora più ambiziosa, ad ampio raggio: si parte dal libro omonimo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini (che firmano anche soggetto e sceneggiatura con Sandro Petraglia e Stefano Rulli), si passa per il film di Stefano Sollima e si approderà a una serie tv in onda su Netflix (peraltro, benché co-prodotto da Rai Cinema, per qualche bizzarro motivo il film è costellato dai servizi di SkyTg24).
Genere o maniera? Il dubbio sorge, di fronte a vicende pressoché sempre inzuppate da una pioggia torrenziale, personaggi quasi stereotipati e situazioni esasperate.
A Sollima non interessa l’iperrealismo di Gomorra né la mescolanza di storia di formazione e spaccato d’epoca di Romanzo criminale. Anche la componente di denuncia è poco definita, quasi data per scontata.
Il lavoro maggiore è sulla messa in scena, sulla confezione dei personaggi e dei loro linguaggi: colori cupi, cuori di tenebra, pioggia battente, fognature che s’intasano (metafora abbastanza trasparente), scorci marini invernali… Più maniera che genere, appunto.
In tutto questo, spicca la performance di Claudio Amendola: il suo Samurai è tanto sgradevole quanto iconico e questa ambiguità è merito di un attore che il cinema italiano ha spesso colpevolmente male utilizzato. Un’interpretazione che spazza via anni di Cesaroni e vanzinate.
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